mercoledì 18 dicembre 2013

Il ciclone Renzi e il fallimento di una classe dirigente
di Giorgio Pagano



Emanuele Macaluso, nel suo libro dedicato a Togliatti “Comunisti e riformisti”, ricorda giustamente i meriti del “comunismo riformista”, che ha svolto una grande opera nel consolidamento democratico dell’Italia. Altrettanto giustamente Macaluso spiega la crisi del Pci con la sua incapacità di tirare tutte le conseguenze della scelta riformista e della “democrazia come valore universale”, rompendo radicalmente con l’Urss e collocando il partito nell’alveo del socialismo europeo. L’intima debolezza del “comunismo riformista” risiedeva infatti nel prevedere un percorso democratico in Italia e nel legittimare nel contempo il regime autoritario sovietico come frutto di una rivoluzione che aveva abolito la divisione di classe.
La questione cardine, purtroppo lasciata senza risposta, la pose Giorgio Amendola in un articolo dell’ottobre 1964 dal titolo emblematico “E’ arrivato il momento di rimescolare le carte”: la questione del “partito unico della sinistra”, nel quale “trovino posto i comunisti, i socialisti, e uomini come Bobbio che rappresentano degnamente la continuazione della battaglia liberale iniziata da Piero Gobetti”. La mancata risposta a questa questione, scrive Macaluso, provocò “la crisi che alla fine del secolo scorso travolse l’intera sinistra italiana”, che è all’origine del fatto “che il nostro è il solo Paese europeo dove non esiste più un grande partito socialista”.
L’inseguimento di un “oltre” abbagliato dalle generiche sirene della completa discontinuità rispetto alla tradizione della sinistra ha portato a un ventennio di subalternità alle ideologie dominanti, senza una visione del futuro alternativa a quella delle forze neoliberiste. Una subalternità che si è protratta lungo il ventennio della straziante metamorfosi Pci-Pds-Ds-Pd, e che ha comportato la pesantissima sconfitta della componente ex Pci-Pds-Ds nelle primarie dell’8 dicembre. Renzi ha vinto non solo perché è un bravo comunicatore e perché è un critico impaziente di un Governo non amato come quello di Letta, ma anche e soprattutto perché il popolo del Pd pensa che il gruppo dirigente storico del partito debba essere “mandato a casa” (la “ribellione” di cui ha scritto nel blog Sandro Bertagna) e che “non c’è niente altro”: c’è solo Renzi, l’unico capace di sottrarre il  centrosinistra a un destino di accerchiamento e di sconfitta. La mancanza di alternative è un grande elemento di forza del Sindaco di Firenze: lo ha spiegato bene Mari Grossi nel suo commento, sul blog, al mio “Renzi, Burlando e il dibattito che non c’è”.
Credo che una sconfitta di questa portata debba comportare una discussione che vada oltre la questione posta da Macaluso -la mancata collocazione del Pci nel socialismo europeo- e che affronti anche il tema delle insufficienze e delle incoerenze della attitudine riformista del Pci. Il che serve anche a spiegare perché il Pci e i suoi eredi non siano mai diventati socialisti. Il punto di fondo mi sembra questo: dal punto di vista delle visioni di politica economica e sociale, il Pci è stato molto influenzato dal liberalismo di Croce e Einaudi, intrecciato con i residui terzinternazionalisti “crollisti”. Un mix poco adatto a cogliere il dinamismo e le trasformazioni economiche e sociali. Tant’è che il riformismo più innovativo, in Italia, è stato quello della programmazione, del nuovo modello di sviluppo e del keynesismo, introdotto dal Partito d’Azione, dai socialisti eterodossi e dalla sinistra democristiana più che dai comunisti. O quello dell’autorganizzazione operaia e della politica come “aiuto alla gente a governarsi da sé”, essenziale in uomini come Vittorio Foa e Bruno Trentin, quest’ultimo comunista sì, ma di formazione azionista. Così si spiega perché l’ondata neoliberista che arrivò anche in Italia dalla metà degli anni ’80  non trovò nemmeno nel Pci molti argini lungo il proprio cammino. Si crearono cioè le condizioni per il vero, grande cedimento dell’ultimo ventennio, che vide protagonisti gli uomini della “svolta”. Ecco perché c’è da temere per le parole di Claudio Burlando, che paragona l’avvento di Renzi con la “svolta” dell’89: una seconda “svolta” potrebbe essere un secondo grande cedimento, visto che per ora Renzi sembra essere del tutto dentro il perimetro politico e culturale della discontinuità “oltrista” e della subalternità al neoliberismo.
Ritornando ai limiti del “riformismo comunista”, essi si manifestarono a pieno, a metà degli anni ’70, con il governo di “solidarietà nazionale”, un monocolore Dc appoggiato dall’esterno dal Pci e dagli altri partiti di centrosinistra. La politica di “austerità” che fu praticata non realizzava certo il cambiamento del modello di sviluppo: fu una semplice, pesante politica di austerità senza riforme che consentì per un breve periodo di bloccare la crescita del debito pubblico rispetto al Pil. Obbiettivo importante, sia chiaro: ma assai debolmente riformista. Al fondo c’era una visione politica in base a cui il Paese non poteva essere governato con il 51% dei voti. Oggi qualcuno lo tradurrebbe dicendo che il Paese si può governare solo dal centro. Un discorso ancora attuale, se si pensa che, dopo le vittorie nei referendum sui beni comuni e nelle amministrative del 2011, il Pd, invece che cimentarsi con la sfida del governo, scelse l’appoggio al Governo Monti, gettando così le basi per la sconfitta della coalizione di centrosinistra nelle elezioni politiche del 2013. I limiti del “riformismo comunista” furono anche i limiti della componente “riformista” nata con lo scioglimento del Pci e la nascita del Pds, guidata da Napolitano e Macaluso: io vi aderii, ma nel nome del socialismo di sinistra e di un riformismo che a mio parere avrebbe dovuto essere più radicale di quello del Pci. Insomma: Giolitti, Ruffolo, Lombardi, Mitterrand, Lula, non il blairismo e la “terza via”. Ma era, la mia, una posizione di minoranza dentro una minoranza… Il riformismo avrebbe dovuto incontrare i giovani di Seattle e del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre, e diventare una alternativa al neoliberismo e non un suo imbellettamento, come invece avvenne.
La riflessione sul fallimento storico della classe dirigente Pci-Pds-Ds-Pd è utile anche perché ci fornisce una lezione per il futuro: regolazione del capitalismo finanziario, programmazione economica, nuovo modello di sviluppo, keynesismo, mutualismo, autorganizzazione, autogoverno sono ancora la rotta di una sinistra nuova, radicale e di governo. Una rotta da portare nei tempi nuovi: un nuovo progetto politico per una nuova stagione, che si basi su queste idee forza della sinistra e le rinnovi profondamente. Il socialismo o laburismo dei tempi nuovi, per esempio, non può non guardare al superamento della demarcazione netta tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, e a una sintesi tra i bisogni delle figure più “protette” e “incluse” e quelli delle figure sociali più marginali, i giovani e i precari in primo luogo (il modo nuovo con cui pensare l’eguaglianza di cui parla Franco Cassano). Così come, altro esempio, il socialismo o laburismo dei tempi nuovi non può non essere ecologista, non fare cioè i conti con i limiti dello sviluppo.
Renzi sarà in grado di portare il Pd su questa strada? Certo, è importante che proponga l’adesione del Pd al Partito socialista europeo. E che lanci segnali di ripensamento rispetto al suo originario impianto sostanzialmente neoliberista: dopo l’innamoramento per Marchionne, ora sembra fare la “corte” a Landini. Ma siamo solo ai “titoli”. Resta, come scrive Luca sul blog, un “profilo ideologico liberale e leggero”. Tuttavia la vittoria di Renzi ci porta in un nuovo terreno di gioco, e il confronto deve aprirsi davvero e farsi nitido: sul metodo di gestione del potere (come scrive giustamente Luca) e sui contenuti, sulla ricerca per un socialismo o laburismo dei tempi nuovi. Personalmente non ho accordato fiducia al Pd neoliberista di Veltroni, ma dopo ho dato credito ai propositi prima di Franceschini, poi di Bersani. E a quelli di Zapatero, Obama, Hollande… In fondo quello che mi ha deluso di meno e che ha fatto più “cose di sinistra” è il Presidente americano, almeno nella politica economica e sociale. Per il resto… Anche i partiti socialisti europei non sono stati capaci di  realizzare gli ideali a cui dicono di ispirarsi. Che fare, allora? Io penso, nonostante veda bene come anche l’impianto di Renzi sia subalterno al neoliberismo, che si debba guardare a lui con una -relativa e condizionata- apertura di credito. Perché, come dice Landini, “è più libero dei suoi predecessori”. E perché è impossibile, come ho cercato di spiegare altrove (“Renzi, non dimenticare le diseguaglianze”, “Città della Spezia” del 22 settembre 2013), riproporre il blairismo vent’anni dopo, in un Paese disperato e con un ciclo economico non espansivo come quello degli anni ’90. Almeno, dunque, “sospendiamo il giudizio”. E sfidiamo Renzi a “cambiare verso” nella direzione giusta. Sapendo che, per la radicalità della crisi del Paese, c’è ormai pochissimo tempo.
Il mio “campo”, tuttavia, non è il Pd, ma la sinistra fuori dal Pd. Ci sto criticamente, anche per il metodo di gestione del (piccolo) potere esistente in questo “campo”, ma qui sto. Il “rimescolamento delle carte”, per dirla con l’Amendola del 1964, tra Pd, Sel, sinistra della società civile, è sempre stato il mio obbiettivo/sogno, ma oggi non è all’ordine del giorno. Credo che in questa fase la piccola Sel, a cui aderisco, debba rafforzarsi come soggetto autonomo. Poi, certamente, deve interloquire con il Pd e verificare la possibilità di un’alleanza basata su un’agenda del cambiamento. Ma innanzitutto Sel deve dire che cosa vuole e propone per il Paese e le sue fasce più deboli. Il nuovo centrosinistra ci sarà, se ci sarà, solo dopo il Governo Letta. E dipenderà dalle scelte del Pd ma anche da quelle di Sel, dalla sua autonomia culturale e politica, dalla sua forza, dalla sua capacità di “influenzare” il Pd. Sel deve, dunque, mettersi a disposizione di una sinistra nuova, aprirsi a chi non si riconosce più nel Pd, nel minoritarismo identitario dell’altra sinistra, nello sfascismo del M5S, e a chi opera nei pezzi vivi della società italiana, da “La via maestra” alla Fiom, da Libera a Emergency. E’ un mondo che non è stato cancellato e che mi auguro si faccia sentire con l’azione culturale e politica. In fretta, perché c’è ormai pochissimo tempo per tutti.  

Giorgio Pagano

Nessun commento:

Posta un commento