lunedì 18 novembre 2013

BIOETICA E FEDE: PREVALGA IL DIALOGO PER IL BENE COMUNE
Marcello Delfino



Forse può essere utile qualche accenno al significato del termine “bioetica” per capire di cosa parliamo in concreto ed avere così un quadro di riferimento più chiaro.
Bioetica, nel senso più vicino a quello cui ci riferiamo oggi, è stato adoperato per la prima volta dall'oncologo statunitense Van Rensselaer Potter, che lo utilizzò nel 1970 in un articolo pubblicato sulla rivista dell'Università del Wisconsin "Perspectives in Biology and Medicine" con il titolo «Bioetica: la scienza della sopravvivenza».
 Nel 1971 lo stesso autore raccoglieva vari articoli su questi argomenti in un libro intitolato Bioethics: Bridge to the future (Bioetica: un ponte verso il futuro) dove scriveva: «Ho scelto la radice bio per rappresentare la conoscenza biologica, la scienza dei sistemi viventi; e ethics per rappresentare la conoscenza del sistema dei valori umani.».
Potter spiegava il termine bioetica come la scienza che consentisse all'uomo di sopravvivere utilizzando i suoi valori morali di fronte all'evolversi dell'ecosistema. La bioetica doveva essere «un'ecologia globale di vita».
La materia, come si vede, oltre ad essere particolarmente sensibile e delicata, è relativamente nuova, conseguente allo sviluppo scientifico della genetica e della medicina.
Le ragioni sulle quali il Magistero della Chiesa fonda le sue risposte alle varie e grandi domande della bioetica traggono spunto dall’unico riferimento che si trova in proposito nella Sacra Scrittura rappresentato dal quinto comandamento “non uccidere” e si basano sul riconoscimento di una legge naturale, che precede qualsiasi legge umana, da cui derivano diritti afferenti alla persona, meritevoli di essere  affermati e difesi in quanto legati alla sua stessa natura.
In questo senso la dignità che spetta alla persona non può essere solo un’affermazione astratta ma deve sostanziarsi nella difesa di quei diritti che appartengono all’uomo “a prescindere” e che  nessuno può negare senza negare la propria ed altrui umanità.
Trattandosi di beni umani, la Chiesa sceglie di giocare questa partita sul piano della ragione più che su quello dell’immanenza, in quanto ritiene la ragione umana capace non solo di governare il mondo ma anche di conoscere la verità sull’uomo: la ragione è capace di riconoscere quei diritti connaturati con l’uomo, diritti che sono, pertanto, incondizionatamente, da proteggere e difendere.
La ragione umana individua questi diritti fondamentali nell’inviolabilità della vita, nel matrimonio e nella famiglia, nella dimensione sociale della persona, nella conoscenza e nell’amore della verità. Riconoscere la dignità della persona e volere il suo bene, cioè amare il prossimo così come se stesso, significa volere il bene della persona che si sostanzia e si realizza nel riconoscimento di quei diritti fondamentali che appartengono ad ogni persona.
Ed a questo punto si comprende perfettamente la logica coerente di tutte le risposta della Chiesa ai vari problemi della bioetica: conoscenza del diritto in questione e riflessione razionale sul modo con cui deve essere difeso.
La Chiesa, insomma, ritiene di utilizzare una riflessione razionale, non derivata necessariamente dalle convinzioni di fede, allorché debba decidere se una determinata condotta violi o meno un diritto naturale della persona umana, immaginando di incontrare, in questo percorso, chiunque usi correttamente la propria ragione.
Per entrare nello specifico che ci interessa, potremmo dire che il Magistero della Chiesa, affermando che la vita è uno di quei beni fondamentali che ci derivano dal diritto naturale e che sono connaturati con l'uomo, rivendica per la vita stessa un valore in sé, a prescindere dal volere dell'uomo, che va difeso comunque anche da chi, non avendo il dono della fede, non crede nella sacralità della vita quale dono di Dio non disponibile da chi l'ha ricevuto.
A questo proposito una lucida riflessione del cardinale Tettamanzi, a commento dell'enciclica Evangelium vitae (Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II del 25 marzo 1995), sottolinea come i risvolti morali del comandamento di Dio «non uccidere» mettano in luce la singolare serietà della responsabilità che da Dio è affidata all'uomo nei riguardi della vita, come realtà sacra e inviolabile, responsabilità che si radica nell'essere stesso dell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, la cui voce risuona nell'intimo della coscienza morale.
“In questa prospettiva – argomenta Tettamanzi - la responsabilità morale si svela in tutta la sua straordinaria ampiezza: riguarda non solo la custodia e la difesa della vita umana nella sua inviolabilità, ma anche e soprattutto la promozione di questa stessa vita nel segno dell'amore che si dona totalmente e gratuitamente.
Come ripetutamente avverte Evangelium vitae, il comandamento del «non uccidere» è sì «negativo», perché proibisce l'uccisione dell'innocente; ma al contempo è «positivo» perché «implica in definitiva l'imperativo di rispettare, amare e promuovere la vita di ogni fratello, secondo le esigenze e le dimensioni dell'amore di Dio in Gesù Cristo» (Evangelium vitae, 77)”.
E ancora da Evangelium vitae: «I precetti morali negativi hanno un'importantissima funzione positiva: il "no" che esigono incondizionatamente dice il limite invalicabile al di sotto del quale l'uomo libero non può scendere e, insieme, indica il minimo che egli deve rispettare e dal quale deve partire per pronunciare innumerevoli "sì", capaci di occupare progressivamente l'intero orizzonte del bene (cfr. Mt 5, 48). I comandamenti, in particolare i precetti morali negativi, sono l'inizio e la prima tappa necessaria del cammino verso la libertà» (Evangelium vitae, 76).
Ed è intorno a quegli innumerevoli “sì” che l'umanità deve credere che si possa costruire un dialogo proficuo fra credenti e non credenti. Certo sui “no”, sui divieti e le proibizioni possono negativamente influire dogmatismi e pregiudizi ideologici.
Ma su quel che si deve realizzare per il bene comune, sui “sì”, insomma, con la necessaria umiltà unita alla prudenza conseguente alla consapevolezza che su questi temi - divenuti sensibili di recente - non si è ancora formata una coscienza consolidata sia civile che religiosa, è non solo possibile, ma addirittura doveroso ricercare la mediazione più alta al fine di traguardare normative accettabili per tutti e che rispettino quel pluralismo di culture e sensibilità che è ricchezza di questo mondo.
Credenti e non credenti si devono misurare sul terreno della ragione, senza pretendere di imporre gli uni agli altri le proprie convinzioni indiscutibili.
In questo senso ha ragione il Prof. Vincenzo Saraceni Presidente Nazionale dell’Amci (Associazione Medici Cattolici Italiani) allorché afferma che "il dialogo tra laici e cattolici è l`unica strada percorribile e fruttuosa quando si parla di salute e sofferenza" così come il laico Cesare Salvi allorché osserva come “cultura laica e liberale e cultura religiosa riescono benissimo a cooperare quando si soffermano serenamente e senza pregiudizi ideologici su temi così delicati”. Già i padri costituenti avevano trovato una mediazione alta con l’articolo 32 della Costituzione laddove si riconosce la libertà di cura da parte del paziente.
Nel 1981 un referendum popolare ha confermato la legge 194 del 1978 che legittima, in casi e tempi determinati, l’aborto.
Se il venir meno di quel divieto, di quel “no”, ha diviso e divide credenti e non credenti, è sugli innumerevoli “sì” che si è potuta verificare quella capacità di dialogo, di confronto e di sintesi al fine di creare le condizioni – ambientali, economiche e psicologiche - che consentano di favorire sempre più l’accoglienza di nuove vite e ne limitino al massimo il rifiuto.
E se l’articolo 575 del codice penale assimila l’eutanasia all’omicidio volontario confermando un divieto, un “no”, è comunque urgente la ricerca di normative che consentano - come sottolineava il cardinale Martini in un intervento sul Sole24 ore del gennaio 2007 a commento di quanto stabilito dal catechismo della Chiesa Cattolica (2278) - da una parte, di riconoscere la possibilità del rifiuto informato delle cure in quanto ritenute sproporzionate dal paziente, dall'altra di proteggere il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio).
E'  in tale contesto che si è svolto e si svolge un proficuo confronto fra coloro che su questi temi ricercano l’incontro e rifiutano inutili guerre di religione.  




                                                                                                          Marcello Delfino

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