Forse può essere utile qualche
accenno al significato del termine “bioetica” per capire di cosa parliamo in
concreto ed avere così un quadro di riferimento più chiaro.
Bioetica, nel senso più vicino a
quello cui ci riferiamo oggi, è stato adoperato per la prima volta
dall'oncologo statunitense Van Rensselaer Potter, che lo utilizzò
nel 1970 in un articolo pubblicato sulla rivista dell'Università del
Wisconsin "Perspectives in Biology and Medicine" con il titolo
«Bioetica: la scienza della sopravvivenza».
Nel 1971 lo stesso autore raccoglieva vari articoli su questi argomenti in un libro intitolato Bioethics: Bridge to the future (Bioetica: un ponte verso il futuro) dove scriveva: «Ho scelto la radice bio per rappresentare la conoscenza biologica, la scienza dei sistemi viventi; e ethics per rappresentare la conoscenza del sistema dei valori umani.».
Nel 1971 lo stesso autore raccoglieva vari articoli su questi argomenti in un libro intitolato Bioethics: Bridge to the future (Bioetica: un ponte verso il futuro) dove scriveva: «Ho scelto la radice bio per rappresentare la conoscenza biologica, la scienza dei sistemi viventi; e ethics per rappresentare la conoscenza del sistema dei valori umani.».
Potter spiegava il termine
bioetica come la scienza che consentisse all'uomo di sopravvivere utilizzando i
suoi valori morali di fronte all'evolversi dell'ecosistema. La bioetica doveva
essere «un'ecologia globale di vita».
La materia, come si vede, oltre
ad essere particolarmente sensibile e delicata, è relativamente nuova,
conseguente allo sviluppo scientifico della genetica e della medicina.
Le ragioni sulle quali il
Magistero della Chiesa fonda le sue risposte alle varie e grandi domande della
bioetica traggono spunto dall’unico riferimento che si trova in proposito nella
Sacra Scrittura rappresentato dal quinto comandamento “non uccidere” e
si basano sul riconoscimento di una legge naturale, che precede qualsiasi legge
umana, da cui derivano diritti afferenti alla persona, meritevoli di
essere affermati e difesi in quanto
legati alla sua stessa natura.
In questo senso la dignità che
spetta alla persona non può essere solo un’affermazione astratta ma deve
sostanziarsi nella difesa di quei diritti che appartengono all’uomo “a
prescindere” e che nessuno può negare senza
negare la propria ed altrui umanità.
Trattandosi di beni umani, la
Chiesa sceglie di giocare questa partita sul piano della ragione più che su
quello dell’immanenza, in quanto ritiene la ragione umana capace non solo di
governare il mondo ma anche di conoscere la verità sull’uomo: la ragione è
capace di riconoscere quei diritti connaturati con l’uomo, diritti che sono,
pertanto, incondizionatamente, da proteggere e difendere.
La ragione umana individua questi
diritti fondamentali nell’inviolabilità della vita, nel matrimonio e nella famiglia,
nella dimensione sociale della persona, nella conoscenza e nell’amore della
verità. Riconoscere la dignità della persona e volere il suo bene, cioè amare
il prossimo così come se stesso, significa volere il bene della persona che si
sostanzia e si realizza nel riconoscimento di quei diritti fondamentali che
appartengono ad ogni persona.
Ed a questo punto si comprende
perfettamente la logica coerente di tutte le risposta della Chiesa ai vari
problemi della bioetica: conoscenza del diritto in questione e riflessione
razionale sul modo con cui deve essere difeso.
La Chiesa, insomma, ritiene di
utilizzare una riflessione razionale, non derivata necessariamente dalle
convinzioni di fede, allorché debba decidere se una determinata condotta violi
o meno un diritto naturale della persona umana, immaginando di incontrare, in
questo percorso, chiunque usi correttamente la propria ragione.
Per entrare nello specifico che
ci interessa, potremmo dire che il Magistero della Chiesa, affermando che la
vita è uno di quei beni fondamentali che ci derivano dal diritto naturale e che
sono connaturati con l'uomo, rivendica per la vita stessa un valore in sé, a
prescindere dal volere dell'uomo, che va difeso comunque anche da chi, non
avendo il dono della fede, non crede nella sacralità della vita quale dono di
Dio non disponibile da chi l'ha ricevuto.
A questo proposito una lucida
riflessione del cardinale Tettamanzi, a commento dell'enciclica Evangelium
vitae (Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II del 25 marzo 1995), sottolinea
come i risvolti morali del comandamento di Dio «non uccidere» mettano in
luce la singolare serietà della responsabilità che da Dio è affidata all'uomo
nei riguardi della vita, come realtà sacra e inviolabile, responsabilità che si
radica nell'essere stesso dell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, la
cui voce risuona nell'intimo della coscienza morale.
“In questa prospettiva –
argomenta Tettamanzi - la responsabilità morale si svela in tutta la sua
straordinaria ampiezza: riguarda non solo la custodia e la difesa della vita
umana nella sua inviolabilità, ma anche e soprattutto la promozione di questa
stessa vita nel segno dell'amore che si dona totalmente e gratuitamente.
Come ripetutamente avverte Evangelium
vitae, il comandamento del «non uccidere» è sì «negativo», perché
proibisce l'uccisione dell'innocente; ma al contempo è «positivo» perché
«implica in definitiva l'imperativo di rispettare, amare e promuovere la vita
di ogni fratello, secondo le esigenze e le dimensioni dell'amore di Dio in Gesù
Cristo» (Evangelium vitae, 77)”.
E ancora da Evangelium vitae:
«I precetti morali negativi hanno un'importantissima funzione positiva: il
"no" che esigono incondizionatamente dice il limite invalicabile al
di sotto del quale l'uomo libero non può scendere e, insieme, indica il minimo
che egli deve rispettare e dal quale deve partire per pronunciare innumerevoli
"sì", capaci di occupare progressivamente l'intero orizzonte del bene
(cfr. Mt 5, 48). I comandamenti, in particolare i precetti morali negativi,
sono l'inizio e la prima tappa necessaria del cammino verso la libertà» (Evangelium
vitae, 76).
Ed è intorno a quegli
innumerevoli “sì” che l'umanità deve credere che si possa costruire un dialogo
proficuo fra credenti e non credenti. Certo sui “no”, sui divieti e le
proibizioni possono negativamente influire dogmatismi e pregiudizi ideologici.
Ma su quel che si deve realizzare
per il bene comune, sui “sì”, insomma, con la necessaria umiltà unita alla
prudenza conseguente alla consapevolezza che su questi temi - divenuti
sensibili di recente - non si è ancora formata una coscienza consolidata sia
civile che religiosa, è non solo possibile, ma addirittura doveroso ricercare
la mediazione più alta al fine di traguardare normative accettabili per tutti e
che rispettino quel pluralismo di culture e sensibilità che è ricchezza di
questo mondo.
Credenti e non credenti si devono
misurare sul terreno della ragione, senza pretendere di imporre gli uni agli
altri le proprie convinzioni indiscutibili.
In questo senso ha ragione il
Prof. Vincenzo Saraceni Presidente Nazionale dell’Amci (Associazione Medici
Cattolici Italiani) allorché afferma che "il dialogo tra laici e cattolici
è l`unica strada percorribile e fruttuosa quando si parla di salute e sofferenza"
così come il laico Cesare Salvi allorché osserva come “cultura laica e liberale
e cultura religiosa riescono benissimo a cooperare quando si soffermano
serenamente e senza pregiudizi ideologici su temi così delicati”. Già i padri
costituenti avevano trovato una mediazione alta con l’articolo 32 della
Costituzione laddove si riconosce la libertà di cura da parte del paziente.
Nel 1981 un referendum popolare
ha confermato la legge 194 del 1978 che legittima, in casi e tempi determinati,
l’aborto.
Se il venir meno di quel divieto,
di quel “no”, ha diviso e divide credenti e non credenti, è sugli innumerevoli
“sì” che si è potuta verificare quella capacità di dialogo, di confronto e di
sintesi al fine di creare le condizioni – ambientali, economiche e psicologiche
- che consentano di favorire sempre più l’accoglienza di nuove vite e ne
limitino al massimo il rifiuto.
E se l’articolo 575 del codice
penale assimila l’eutanasia all’omicidio volontario confermando un divieto, un
“no”, è comunque urgente la ricerca di normative che consentano - come
sottolineava il cardinale
Martini in un intervento sul Sole24 ore del gennaio 2007 a commento di quanto
stabilito dal catechismo della Chiesa Cattolica (2278) - da una parte, di
riconoscere la possibilità del rifiuto informato delle cure in quanto ritenute
sproporzionate dal paziente, dall'altra di proteggere il medico da eventuali
accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio).
E' in
tale contesto che si è svolto e si svolge un proficuo confronto fra coloro che
su questi temi ricercano l’incontro e rifiutano inutili guerre di religione.
Marcello
Delfino
Nessun commento:
Posta un commento